Lo riporto per intero, ma date una occhiata all'originale, qui.
Parafrasando l’opera Galileiana, in queste poche righe faccio quello che a conti fatti mi riesce meglio: scrivo di getto una serie apparentemente scollegata di pensieri che mi girano per la testa da un sacco di tempo. Senza necessità di dialogo con altri. Il mio pensiero è legge, poiché il mio ego è talmente grande da non accettare critiche, rimproveri, contradditori o qualunque altra forma di discussione. Un drago.
Penso, quindi sono. Dico quello che penso, raramente penso a quello che dico.
Nel 90% dei casi sono attratto dall’idea di scrivermi addosso. Non fisicamente, beninteso, altrimenti farei il tatuatore. Lo scrivere è dunque la massima espressione di chi vorrebbe ma, per motivi spaziotemporali oscuri, non può parlare a una platea abbastanza numerosa da poter apprezzare de visu le sue parole.
L’Italia è il paese degli scrittori. Tutti scrivono. Pochi leggono.
In verità l’Italia è anche il paese degli allenatori. Tutti allenano. A parole.
Mi occupo da un po’ di tempo di calcio giovanile. Cinque sei anni, non quaranta, eh. Prima ho provato a giocarci, con risultati scadenti, come per la maggioranza di coloro che intraprendono questo sport. Ufficialmente ho smesso per infortunio. Ufficiosamente ho smesso perché il lavoro che faccio tutt’ora non mi consentiva di allenarmi né di giocare, e, diciamola tutta, non sono mai stato un fenomeno. Grinta e cuore, sicuramente. I piedi decisamente no.
Ho provato a stare lontano dai campi, e per un periodo ci sono anche riuscito.
Poi, i bambini. I bambini ti cambiano la vita: è una verità incontrovertibile. Che te la cambino in meglio è una decisione personale, che ognuno deve valutare con attenzione.
Odio i cambiamenti. Quindi ci ho messo tempo ad assimilare questa cosa: poi ho deciso che me l’avrebbero migliorata.
Questo è il punto di partenza: i bambini. E i draghi.
Per i bambini il calcio è semplice. C’è una palla, si deve fare gol in una porta, spingendola e calciandola. Non si gioca con le mani, solo il portiere può. Vince chi fa più gol. Fine.
Smetti di essere bambino quando questa semplicità viene meno. Il tutto è più difficile, qualcuno si mette addirittura a contare i gol per verificare che ci sia un punteggio, un vinto e un vincitore. Qualcuno addirittura si mette a giudicare se una cosa è stata fatta bene o meno.
C’è un giudice in campo. C’è un allenatore a bordo campo che ti dice cosa devi fare. Ci sono i genitori fuori la rete che ti giudicano e ti dicono cosa fare contemporaneamente.
Troppo spesso si parla di calciatori, di sportivi, di atleti. Ci si fa mille domande e si danno diecimila risposte su come migliorare questo o quell’aspetto della tecnica individuale, o della tattica, o della tattica collettiva. Delle strategie e dei moduli. Dell’aspetto condizionale. Odio il calcio dei grandi, è complicato.
Abbiamo i droni e la match analysis. Abbiamo la lavagna tattica, invariabilmente gestita da gente che non la capisce. Abbiamo le statistiche per giocatore fatte col gps. Mi chiedo quando football americano e basket siano entrati nel nostro vecchio mondo pallonaro. Non me ne sono accorto, eppure è successo.
Abbiamo la televisione. E i soldi derivati dalla televisione. Beninteso: la televisione non è il male assoluto. Mi piace la televisione, guardo un sacco di film e di cartoni animati. I media però hanno il potere assoluto di trasferire in tempo brevissimo e facilmente assimilabile una quantità di cagate che nemmeno con la più grande dose di buona volontà del mondo riusciremmo ad eguagliare, a voce, in una vita intera. L’equazione che ci si presenta sotto il naso quindi è lineare: calciatore--successo--soldi.
Il contagio è immediato. Tutto il resto non conta, compresi i numeri percentuali di quanti cominciano uno sport e arrivano al professionismo.
Dunque un bambino di cinque sei anni che comincia a fare una attività fisica all’aperto con i suoi coetanei è matematicamente un futuro calciatore di successo coi soldi. Qualunque bambino. L’immaginario collettivo è geniale, se pensate ai draghi. Nessuno ha mai visto un drago, e si vocifera che non sia nemmeno mai esistito, un drago. Però, nell’immaginario collettivo, se dici “drago” tutti pensano a un animale alato simile a uno pterosauro che sputa fuoco. Un drago. Lo stesso con i calciatori di successo coi soldi. Sono rarissimi, quasi mitologici, ma nell’immaginario collettivo è quantomeno doveroso provare ad arrivare a quei livelli.
Per i bambini il calcio è semplice. Giocano per il gusto di giocare e di fare gol. Ma ci siamo noi adulti a ricordare loro che invece no, che non è così, che per essere un campione devi lavorare duro e impegnarti e tante volte giocare “d’astuzia”. Che, tradotto in lingua corrente vuol dire prevaricare, approfittare, imbrogliare. Un drago.
Mi è stato proposto di scrivere qualcosa di non banale su quello che è il sistema calcio giovanile, oggi, secondo il mio punto di vista.
Il mio punto di vista è chiaramente quello di chi fa calcio con i bambini e per i bambini, fregandosene in maniera totale di cosa faranno da grandi: se c’è una cosa che loro ti insegnano, è che esiste solo il presente. L’attimo in cui vivi, niente prima e niente dopo. Meraviglioso e potentissimo attimo di vita vissuto ad una intensità pazzesca, senza rimorsi né rimpianti, senza prospettive e senza conseguenze.
La gioia elevata a sistema, in un eterno presente in cui le emozioni esplodono come bombe carta nel derby di Istanbul. La dilatazione del concetto di spaziotempo, che nemmeno Einstein saprebbe spiegare, costretto così a rivedere la sua teoria. Per i bambini niente è relativo ma tutto assoluto, verticale, univoco, dolcemente egoista.
Ripartiamo da questo. Dalla semplicità, dalla gioia, dal presente.
Facciamo finta che niente sia successo, e dimentichiamo tutto quello che sappiamo o che pensiamo di sapere sul calcio.
Limitiamoci ad essere bambini.
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